Tutti quanti noi abbiamo ricordi più o meno importanti legati alla nostra infanzia, momenti di gioia o di tristezza,momenti che ci hanno segnato e cresciuto, conferme o delusioni che hanno indirizzato la nostra vita. Molti di questi momenti sono legati ad un oggetto che per noi ha avuto un significato particolare,magari un giocattolo, o un capo di abbigliamento, un dono decisamente indovinato.
Anche nei miei ricordi molti sono questi oggetti che hanno accompagnato e segnato la mia infanzia, fra gli altri,potrà sembrare strano, ma uno che spesso mi ritorna in mente è un tagliere di legno. Mio padre aveva proseguito l’antica attività di suo padre, mio nonno Becon, quella del fabbro carradore. Ai tempi del nonno e sino intorno ai 50 anni di mio padre la costruzione di quegli stupendi carri agricoli completamente in legno non era ancora stata soppiantata da quella dei sempre più moderni ed efficienti rimorchi in ferro.Ma l’invenzione del motore Diesel avvenuta a fine 800 ad opera di Rudolf Diesel era destinata a cambiare rapidamente le cose ed intorno agli anni 50 lo sviluppo nelle vendite dei trattori agricoli confinò l’attività di mio padre a semplice ricordo.
Nei confronti della costruzione di uno di quei vecchi carri agricoli quella relativa ad un rimorchio agricolo era di una facilità enorme e papà Tavio avrebbe sicuramente potuto accedere ad un prestito bancario, acquistare un attrezzatura moderna specifica e convertire il suo lavoro. Ma papà era terrorizzato dall’idea di farsi dei debiti, suo padre era stato un imprenditore dall’energia, spirito d’innovazione e modernità ineguagliabile ma aveva vissuto in un epoca arcaica e stagnante dove regnava nelle masse soprattutto contadine una povertà diffusa e totale, unita ad una mentalità chiusa in se stessa, sorda ai segnali di cambiamento e modernizzazione che percorrevano l’europa ed il mondo. Un epoca dove il danaro fluiva molto poco, dove era ancora abbastanza diffuso il baratto e lo scambio d’opera e dove era ancora profondamente sentito il senso della solidarietà, sentimento di cui mio nonno non faceva sicuramente difetto.
Lo aveva visto tutta la vita dibattersi nei debiti, sia perchè lanciato in continue sfide ed investimenti notevoli, il laboratorio da maniscalco, la sega da tronchi, la realizzazione a proprie spese di un lungo tratto di linea elettrica, la prima trebbiatrice a vapore arrivata nel paese, sia perchè continuava ad ingrandire la casa nella vana speranza di tenere unita la sua famiglia di otto figli(sei di loro se ne andranno per sempre in Argentina e non li rivedrà mai più). Lo aveva visto combattere sino alla fine contro la miseria o l’insolvenza, il suo orgoglio ed il senso della dignità lo portavano continuamente a cercare nuovi prestatori di danaro per pagare quelli che aspettavano da troppo tempo o qualcuno di quelli che gli aveva diretto qualche battuta allusiva.
Per questo Tavio si era ripromesso che fra gli sbagli che nella vita avrebbe potuto fare quello di mettersi nei debiti non ci sarebbe stato, ad ogni costo e fatica avrebbe fatto l’impossibile prima di arrivare a farsi imprestare danaro dalle banche e ancora di meno da privati. Questo fu il motivo,confessato a pochissimi, per cui restò con il laboratorio tale e quale come gli aveva lasciato mio nonno Becon, senza apportare nessuna modifica od aggiornamento, senza l’acquisto di qualche macchina moderna portando incredulità e confusione fra la gente del circondario che non capiva come mai un uomo dalle sue apprezzate qualità tecniche ed umane se ne stesse così immobile al palo.. E a nulla servirono le tante offerte e proposte di collaborazione che ricevette da amici e parenti, persone che avrebbero voluto entrare in società con lui mettendo a disposizione i capitali necessari, ditte avviate che gli proponevano la rappresentanza, l’apertura di un concessionario o l’assistenza sui loro prodotti. Un gigante spaventato.
Così cerco di tirare avanti alla men peggio, diversificando ed ampliando un pò quel tipo di attività parallela e “riempitrice”che già comunque svolgeva con il padre, costruzione “carette“(cariole agricole) “gabie da cunii“(gabbie da conigli), “cason per la meria“(cassoni per lo stoccaggio dei cereali), “rabè per l’uva“(slitte per il trasporto dell’uva) e tanti altri lavoretti minori come “as per la pasta”(tavole per fare la pasta in casa), pulentere(piani circolari usati per vuotare la polenta) ed appunto “Capilorie” (taglieri, come si diceva).
Definirli taglieri è davvero riduttivo, erano dei pezzi unici, realizzati con maestria e grande cura dei particolari, dalla scelta del legno, generalmente di noce od olmo, le tavole dovevano essere prive di nodi, fessurazioni e difetti nelle fibre e nella venatura per evitare problemi d’imbarcamento o scheggiatura. Per aumentarne appunto l’indeformabilità e la durata su uno dei due lati veniva aggiunto un rinforzo con linguetta doppia incastrata e spinatura profonda. Dalla parte opposta mio padre ritagliava un manico splendido, a forma generalmente di mezza luna collegata con uno stelo, tutto arrotondato e levigato con molta attenzione. Al centro del manico un piccolo foro permetteva di appenderlo ad un gancino infisso in parete. A volte il tagliere era semplicemente rettangolare cioè senza manico, con doppio rinforzo laterale, per facilitare la presa veniva praticato un grosso foro su uno degli angoli
Uno di questi taglieri era quello fatto per mia madre e quello che mi riporta a tanti ricordi, era di noce, di dimensioni all’incirca una trentina di centimetri in larghezza, quaranta in lunghezza più il manico e 5 centimetri di spessore, per me,piccolino, abbastanza pesante, dovevo afferrarlo con entrambe le mani ed una certa convinzione per spostarlo dalla credenza al tavolo della cucina. Ma era comunque una festa, una di quelle piccole gioie che ti salgono da qualcosa di profondo che non capisci dove si trova ma che ti fa un gran bene, una di quelle sensazioni che sono intrinseche dell’infanzia e che si perdono con essa, dopo provi ancora gioie e momenti di grande emozione ma sono comunque una cosa diversa, come dire meno “calde”, meno invasive.
La mamma m’incaricava di un lavoro che amavo, quello del “ciapisè”(triturare)il prezzemolo oppure l’aglio od altre verdure usando la “capiloria“(Coltello a mezza luna), un lavoro che svolgevo con grande impegno, energia ed una certa abilità puntualmente sottolineata da mamma.
Ogni volta anelavo ad un secondo tipo d’ incarico, pur se abbastanza faticoso mi piaceva; sembrava riduttivo e banale richiedere io di farlo per cui ci speravo e basta e di tanto in tanto arrivava, quello della pulizia “completa” del tagliere. Consisteva in un lavaggio deciso sotto l’acqua corrente, una asciugatura molto decisa con uno strofinaccio scaldato più volte vicino alla stufa e dopo una energica raschiettatura con un coltello piano che aveva fatto mio padre, in modo da togliere almeno in parte i segni ed i tagli lasciati dalla “capiloria” Doppia soddisfazione e doppia gioia, agli apprezzamenti della mamma si aggiungevano quelli di papà:”Bravo,u’ smia bele nov“(“Bravo, sembra come nuovo”)