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L’ultima furnò!: L’ultima ferratura

20 Aprile 2010 by Gianfranco

 

Ruote Carro agricolo

Langhe-Monferrato: Attività artigianali del passato

L’ultima costruzione di ruote da carro agricolo

L’ultima costruzione di ruote agricole realizzata ad opera di mio padre  nel nostro vecchio laboratorio da “caradur” (carradore- costruttore di carri agricoli) del nonno Becon si aggira come epoca temporale nei primi anni del decennio 1960/ 70. Infatti io avrò avuto 8- 9 anni.

Ricordo che avevo dato una mano, anche se molto saltuaria e marginale, a mio padre nella loro lunga e meticolosa  costruzione. Nelle varie fasi mi spiegava dettagli di cui non ricordo praticamente nulla, purtroppo.

Quello che invece ricordo nei minimi dettagli è  quella che si può definire la botta finale, la conclusione dell’opera e al contempo il collaudo, la verifica se tutta la precedente lavorazione era stata impeccabile cioè la “ferratura” della ruota. L’operazione consisteva nell’inserimento sulla circonferenza della ruota del robusto anello di ferro che ne avrebbe garantito la tenuta e la durata.

Il giorno dell’ultima “furnò” (Ferratura)

Pinot di Marcheis era un tipo particolare, molto alto, più ancora di mio padre che arrivava già ad un metro e ottanta, lo conoscevo e lo ricordo bene perchè sovente veniva a casa nostra, era  come si dice in piemontese “in rimon“, uno di quei tipi che anche se magari grossolanamente sono comunque capaci a fare un pò di tutto, per questo Tavio ed Becon (mio padre) era solito cercare la sua collaborazione  per piccoli lavori di idraulica o quando aveva dei lavori più impegnativi del solito o difficili da affrontare da solo come il taglio di tronchi o la piallatura di traversoni.

Data l’altezza e un camminare decisamente fuori dal comune, strascicato e al contempo molto dinoccolato  era impossibile non riconoscerlo anche da molto lontano, allora non ci pensavo ma adesso capisco che mio padre e lui, nonostante i frequenti battibecchi, si volevano bene.

Come facessero a lavorare insieme sinceramente non lo so nemmeno adesso a distanza di tanti anni. Il primo nei lavori un precisino, il secondo con la tendenza a soluzioni più sommarie per cui ricordo diversi casi in cui il povero Pinot ha dovuto smontare il lavoro appena finito e rifarlo di sana pianta. Vi risparmio la tremenda sequela di bestemmie che ne conseguiva appena Tavio se ne era andato, al di fuori dei rischi diseducativi che correvo rimanevo incantato dall’incredibile varietà di termini che gli fiorivano in bocca a mitraglia. Comunque il suo era  sempre uno sfogo passeggero, poi il lavoro lo eseguiva secondo le indicazioni ricevute anche perché con mio padre e le sue testarde decisioni era del tutto inutile lottare e Pinot questo lo sapeva molto bene.

Quel mattino di circa 45 anni fa sarebbe passato alla storia, no per carità, non alla storia ufficiale e pubblica, quella che si scrive e si tramanda nei libri, parlo della storia mia, della mia famiglia e della mia gente che abita o purtroppo abitava nella borgata dove è situata la mia casa e il laboratorio del nonno e di papà.

Quella mattina in reg Giarone a Bubbio si sarebbe assistito all’ ultima furnò di ruote per carri agricoli, sapete quei bellissimi carri in legno che sono stati per secoli l’unico mezzo di carico e trasporto dei contadini e che sono ancora visibili in musei o nei giardini di qualche bella villa

Mi ricordo  anche il numero, 14 ruote, 6 del tipo piccolo, quelle anteriori e 8 posteriori più grandi, 4 di queste erano per un carro nuovo, (l’ultimo realizzato da mio padre). Le altre erano ricambi in sostituzione di altre rovinate e 4 erano di scorta e, per fortuna(non solo) le ho ancora in ottime condizioni.

Se avete modo di vedere da vicino un di questi carri non fate come tanti, uno sguardo anonimo e via, osservatelo per qualche minuto nei suoi particolari, soffermatevi un momento con lo sguardo ma anche col pensiero soprattutto sulle ruote e se anche non siete del mestiere potrete intuire il fantastico capolavoro che sono e almeno sommariamente cogliere l’incredibile mole di lavoro che comportava la loro realizzazione.

Tavio aveva lavorato settimane a prepararle, aveva scelto le tavole di acacia migliore, ben stagionate, prive di difetti in grado di comprometterne la robustezza , aveva segato e sgrossato tutti i settori e tutti i “gambot“(i raggi) e i tronchetti per realizzare i mozzi, aveva già acquistato e messo da parte tutte le “bisule“(boccole) in ferro e le lastre di 60 mm spesse 10 per i cerchi esterni.

Spiegarvi nei dettagli tutta la lavorazione comporterebbe non so quante pagine ed una competenza che temo di non possedere completamente: dalla finitura a mano con la sgorbia semicircolare dei”gambot“, alla tornitura dei mozzi, all’esecuzione di tutte le scanalature sui mozzi e sui settori, dei tenoni su gli incastri.

Quindi il montaggio  di tutti i particolari, “l‘imbusolamentoè” cioè il piantaggio delle boccole, il taglio delle lastre.

E poi, alla forgia, la piegatura a caldo per farne dei grossi anelli (chissa, credo grosso modo calzabili al dito di Polifemo) che dovevano scrupolosamente rispettare una misura di circonferenza lievemente inferiore a quella della relativa ruota,  la saldatura tutta a mano  per sovrapposizione dei lembi e via di questo passo.

Comunque quel  mattino si era arrivati all’ultima operazione, quella forse più delicata anche se nella costruzione di una ruota, come detto, di facile non c’è assolutamente niente, l’inserimento a caldo del cerchio di ferro sulla rispettiva ruota.

Tutta la gente della borgata era in fermento, sia perché, nei giorni indietro, Tavio aveva contattato gli uomini  validi per garantirsi la loro collaborazione, sia perchè la notizia come d’altronde qualsiasi altra novità si propagava tra la decina di case della borgata con incredibile rapidità.

Per di più la grossa catasta di legname disposta a cerchio nella nostra piazzolla dall’altra parte della strada rispetto il laboratorio preparata con cura all’alba non poteva sicuramente passare inosservata e ancor di meno dopo che mio padre gli dava fuoco per scaldare i grossi anelli di ferro.

Quel mattino come è facile immaginare mi sono alzato molto presto, temevo di perdermi i dettagli della preparazione e poi avevo assicurato il mio aiuto e per nulla al mondo avrei mancato ad una promessa fatta a mio padre. Non fare colazione in casa mia sarebbe stato un delitto per cui mi sono accontentato di farla il più rapidamente possibile, sono uscito di casa in tempo per  assistere all’accensione del fuoco.

Ci sarebbero volute circa 3 ore di fuoco vivo per portare gli anelli alla temperatura necessaria, Pinot non era ancora arrivato ed ero felice di essere almeno per quel momento l’unico collaboratore. “Tei za què, bravo, ven cun me canduma pie gli umet” (Sei già qui, bravo, vieni con me che andiamo a prendere gli ometti).

Gli “umet” erano semplicemente dei cilindri di legno duro, generalmente acacia, di diametro sui 15 cm ed alti una ventina e servivano come appoggi per il posizionamento della ruota. Credo che il nome “umet“, appunto fosse loro attribuito più o meno inconsciamente perché si potevano immaginare come una schiera di “ometti“concentrati nello sforzo di tenere la ruota posizionata alla giusta altezza. Servivano appunto come distanziali, si posizionavano in numero di 7-8 su una apposita grossa ruota in ferro-cemento da sempre posizionata davanti al laboratorio, all’epoca un pò impigrita ma che soprattutto con mio nonno aveva vissuto periodi di lavoro molto duri.

Intanto è arrivato Pinot, non ha nemmeno bisogno di chiedere a Tavio cosa fare, si rivolge a me”ed soi andua cu iè en sapon ? “Gli porto la zappa, di buona lena si mette a scavare a distanza di un paio di metri dalla pietra una grossa pozza, dall’altra parte della strada dove brilla il fuoco abbiamo il “bui ed leva marsa” (letteralmente il bidone dell’acqua marcia). In realtà come ho già spiegato, nelle pagine del sito, si tratta di un grosso contenitore cilindrico di cemento e l’acqua definita “marcia” è in realtà acqua solforosa.

Con un grosso secchiello di alluminio e quel suo camminare perdendo le ossa per strada  fa diversi viaggi fino a riempire la pozza. La grossa pietra di cemento presenta un grosso foro al centro con inserita e bloccata una sbarra cilindrica di ferro, a questa viene agganciata la “martinica“, come quella dei freni dei carri, una grossa barra filettata su cui si avvita una manovella e che serve a bloccare con forza la ruota di legno sugli “ometti”.

Ricordo ancora come appena mio padre ha bloccato, con me che lo aiutavo a sistemare gli ometti, la prima ruota il miracolo della comparsa degli altri aiutanti, senza bisogno di richiami, di bussare alle porte, di avvisare, come un rito conosciuto, quasi atavico, un tacito accordo, un segnale unanime. Adesso mi rendo conto come tutte quelle persone seguivano ogni fase della preparazione, magari incaricavano la moglie o i figli oppure la madre “apeina ed vughe che Tavio u bloca  la roia ti mle dise” (appena vedi che Tavio blocca la ruota me lo dici)…Ed eccoli li, come magicamente evocati, Vigio dl’Ambros, Giuani ed Basan, Pino ed Vuanen. “Anlura suma pront“(Allora, siamo pronti)

Ricordo molto bene il tuffo al cuore, l’attimo di ansia e di panico avuto sul momento, era la prima volta che partecipavo all’operazione, sarei stato in grado del compito affidatomi?, e poi come dovevo fare, come non  sbagliare?. D’accordo che mio padre mi aveva spiegato in cosa consisteva il mio lavoro, praticamente con una grossa sbarra di ferro fare leva tra la ruota e l’anello per favorirne l’alloggiamento ma tra il dire e il fare…..e poi ero consapevole che poteva bastare un errore per compromettere l’intera operazione

Gli altri dovevano invece armarsi di uno strumento apposito costituito da una grossa e robustissima barra di legno(vedi sotto) con in cima un altrettanto robusto gancio di ferro con il quale bisognava agganciare l’anello caldo di ferro per costringerlo a calzare sulla ruota di legno mentre mio padre girando rapidamente intorno batteva con la mazza sul cerchio nei vari punti di aggancio per far scendere l’anello.

Barre Ferratura Ruote Carri Agricoli

Era il momento più delicato, l’anello estratto dal fuoco si raffreddava velocemente e se non si riusciva a calzarlo nei primi minuti non sarebbe più stato possibile e l’operazione andava ripetuta con una lunga serie di inconvenienti  “Vigio botte silè- Pino a que- Te Giuani botte da l’otra part- i tire tuc ansema decis, fe atension cu se sgancia nent quand ca bat cun la mosa– Te Gianfranco tin  ven a drera con la sbora e foi leva fort andua ca bat- Pinot ten pronta la mosa e el marte- Ale a vag a pie el prum“(” Vigio mettiti in quel punto li- Tu Pino mettiti li- Tu Giovanni dall’altra parte- Tirate tutti decisi insieme, fate attenzione che non si sganci quando batto con la mazza- Tu Gianfranco mi vieni dietro con la sbarra di ferro e fai leva dove batto- Dai vado a prendere il primo”)

Era una scena  spettacolare, mio padre a ragion veduta era considerato una delle persone fisicamente più forti del paese, io non me ne rendevo allora conto ma adesso capisco come per gli altri partecipanti vederlo compiere l’impresa di andare a prendere uno di quegli anelli doveva era uno spettacolo affascinante. Basta pensare che uno degli anelli delle ruote grandi posteriori poteva pesare più di 2o kg, che per agganciare e trasportare l’anello senza bruciarsi doveva usare un tridente con un manico molto lungo, e con quel peso a circa 2 metri dal corpo percorrere più di una ventina di metri è già tutto detto.

Giunto a destinazione posava il cerchio caldo sulla ruota, lo posizionava con lunghe tenaglie mentre gli altri lo afferravano prontamente con i ganci, afferrata la mazza Tavio cominciava a dare colpi secchi e precisi tutt’intorno ordinando a me di seguirlo con la sbarra e alternativamente agli altri chi doveva tirare di più e miracolo, l’anello a prima vista cosi stretto da far temere un errore di misura andava a calzare perfettamente sul legno spaventato della ruota.

A questo punto con una rapidità impressionante mio padre sbloccava la ruota l’afferrava come un fuscello(sui 60 kg) e correva alla pozzanghera dove Pinot , mollato il gancio, già lo attendeva armato di mazza.

Questa era l’operazione finale non meno delicata delle altre, l’assestamento e la centratura della ruota, mio padre faceva continuamente  girare la ruota nella pozzanghera per ottenere un raffreddamento progressivo ed uniforme  tenendo contemporaneamente in mano il martello grosso dell’incudine con continui colpi di  aggiustaggio sui fianchi mentre Pinot dava colpi precisi in direzione dei “Gambot” con la mazza, i colpi secchi di dolore del legno che veniva forzatamente pressato dal raffreddamento dell’anello era il segno che l’assemblaggio era riuscito… La ruota avrebbe sopportato carichi di quintali, strade sconnesse, buche e fossi, pioggia, vento e sole, guadi e fango senza mai venire meno al suo dovere

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