Personaggi della borgata Giarone: Carolina
Carolina dl’Ambros viveva in una casa a poche decine di metri dalla nostra. Quando io era un bambino di 6/7 anni era molto anziana “la pi vegia du Geiron” (la piu anziana della borgata Giarone).
Abitava lì con l’amato figlio Vigio e la nuora Tilde con cui per quel congenito e proverbiale astio che si instaura spesso sin dall’inizio tra suocera e nuora c’era un rapporto abbastanza conflittuale. E anche se ad onor del vero gestito con una buona dose di rispettosa riservatezza non poteva sfuggire in una comunità di poche anime di cui ognuno conosceva vita e miracoli di tutti.
Carolina ha sempre lavorato duro, lei e il marito si erano praticamente costruiti la casa recuperando con una carretta tirata a mano le pietre del vicino fiume Bormida, poi era rimasta vedova ancora giovane con 3 figli sulle spalle.
Per anni si era presa l’incarico di preparare i pasti nella caserma del paese, lavandaia e stiratrice a casa e a domicilio e qualsiasi altro lavoro gli venisse offerto, anche quello della balia o nutrice.
Dire quindi che la sua è stata una vita dura è un eufemismo, ma Carolina oltre al fisico aveva anche il carattere di puro acciaio, non si era mai arresa, aveva sofferto, lottato e combattuto come probabilmente non sarebbe riuscito a fare nemmeno un uomo, ” A le foia ed fer“(è fatta di ferro), questo il commento dei vicini.
Quando la frequentavo io era ancora relativamente in gamba. Nelle stagioni calde era quasi un abitudine vederla seduta sulla panchina di legno davanti a casa in riflessione o a parlare da sola con se stessa, parlava spesso con se stessa, frasi strane, interrotte, incomplete, dal significato oscuro per il casuale ascoltatore ma sicuramente non per lei.
Spesso andavo a salutarla e ancora più sovente mi chiamava lei, era ancora relativamente lucida nei pensieri ma la memoria, com’è tipico dei vecchi, formidabile sulle cose più lontane la tradiva e la metteva in confusione in quelle recenti.
Una “strana” abitudine
Aveva la particolare abitudine di regalarmi dei soldi, non grosse cifre ma qualche moneta, 100, 200, 300 lire, mi facevano molto comodo e mi consentivano di togliermi qualche sfizio nel negozio di Pina ed Posaleva (Pina Passalacqua). Un pezzo di surrogato di cioccolato bianco e nero, un pò di mentini, qualche bastoncino di liquerizia.
Carolina non accettava assolutamente alcun rifiuto ed era inutile discutere, te li infilava in tasca, te li metteva in mano e poi con una forza insospettabile ti faceva chiudere il pugno tenendolo stretto finchè capiva che ti eri arreso, poi faceva quel segno inequivocabile di complicità col dito dritto sul naso.
Forse alla base di questa sua strana abitudine si celava un sentimento di rivalsa per i tanti sacrifici e privazioni subite in tutto l’arco della sua vita. Forse il desiderio di evitare a dei ragazzini gli stessi patimenti, certamente la soddisfazione di farci contenti e vederci allegri
Era durato un pò finche mio padre accortosi della cosa mi ha spiegato che Carolina non era più del tutto consapevole di cosa stava facendo e che non era giusto per lei e la sua famiglia approfittare della sua strana abitudine e che, quindi, non dovevo accettare i soldi.
“A le vegia, a sa pi nent be lo cas fa“( “é vecchia, non sa più bene cosa sta facendo”) “Ma papà, del vote ai li dig cai voi nent ma chila ansist e s’ufend“(Ma papà delle volte glielo dico che non li voglio, ma lei insiste e si offende) “A iò capi, fa pareg, te piglie, poi l’induman tei li porte con na scusa“(Ho capito, fai così tu prendili, poi l’indomani glieli riporti con una scusa)
E così facevo “Carolina a io truvò i sto sod davante a la vostra porta“(Carolina ho trovato questi soldi davanti alla vostra porta) “Carolina, a io truvò to fii Vigio, u ma dime ed dete sti sod“(Carolina, ho trovato vostro figlio Vigio, mi ha detto di portarvi questi soldi) e via di questo passo.
Anche Carolina come oramai quasi tutte le figure che hanno dato un senso alla mia infanzia non c’è più o perlomeno, da tanto tempo, non abita più nella mia borgata